Attacco di panico

Mettiamo subito in chiaro una cosa: non si muore per un attacco di panico. Neanche con più attacchi.

Se vi hanno raccontato che il cugino del cognato del vostro vicino di casa è morto per un attacco di panico, semplicemente non credeteci.

Ma che cos’è precisamente un attacco di panico? 

Per “attacco di panico” si intende una reazione fisiologica che si presenta come esasperazione (in intensità e durata) di una normale attivazione ansiosa. I sintomi con cui si manifesta sono generalmente: forte tachicardia, alterazione della frequenza respiratoria, mancanza d’aria (dispnea), sensazione di soffocamento, tremore, sudorazione, sensazione di “testa leggera”, vista offuscata o alterata, sensazione di “bolla d’aria”, pressione o dolore al petto, vertigini, gambe molli.

I sintomi possono variare da persona a persona. Alcuni riferiscono di udire tinniti (fischi, ronzii, fruscii), brividi/vampate di calore o, più raramente, di avere reazioni di vomito e diarrea, cefalea o pianto incontrollato. Benché la reazione fisiologica sia molto soggettiva, l’attacco di panico è sempre accompagnato dalla percezione di paura, o meglio, di vero terrore.

Solitamente è presente la sensazione di morte imminente, sensazione che mette il panicante nella condizione di controllare i sintomi in questione, cercando di ridurli volontariamente.

A cosa reagiamo durante un attacco di panico?

La reazione fisiologica descritta è un effetto della paura. Possiamo aver paura di situazioni più o meno specifiche, elementi più o meno definiti, luoghi, sensazioni, pensieri. L’oggetto della paura può essere più o meno reale, così come può avere una collocazione esterna o essere generato dall’individuo stesso (pensieri, idee, ricordi).

Generalmente chi ha sperimentato uno o più attacchi di panico sviluppa un’ulteriore paura: la paura della paura stessa.

In questi casi l’individuo passa dal timore verso l’oggetto “esterno”, alla paura di rivivere quelle sensazioni terribili di perdita di controllo o di morte certa.

L’attacco perde così la connotazione di prevedibilità, provocando una risposta di vigilanza costante e iperattivazione fisiologica in previsione di un imprevedibile agguato di panico.

Un vero agguato, se consideriamo che solitamente colpisce quando meno ce lo aspettiamo: di notte mentre dormiamo, durante un bagno rilassante, mentre guardiamo un programma piacevole in tv o mentre siamo in fila presso uno sportello, quando attraversiamo una piazza affollata o nelle situazioni nelle quali non è indicato perdere il controllo… la lista può essere infinita.

È possibile che chi ha sperimentato il panico non riferisca nessuna paura in particolare, né prima né successivamente all’attacco, magari vive serenamente senza grandi preoccupazioni. Non c’è da sorprendersi, in quanto tale quadro sintomatologico può essere anche l’effetto di uno stress passeggero, di un affaticamento lavorativo o di trascurabili preoccupazioni. In questa situazione l’individuo può reagire in due modi: accettare che siano attivazioni transitorie oppure sviluppare una preoccupazione eccessiva relativa al motivo di tale malessere o alla possibilità che si ripresenti, timore che si trasforma in paura di morte o di impazzire/perdere il controllo.

Improvvisamente il panicante si ritrova nel bel mezzo di un Disturbo da Attacchi di Panico, a cui cerca di sfuggire applicando soluzioni coerenti con il senso comune o che semplicemente hanno funzionato in passato: evitare tutte le situazioni in cui è prevedibile l’attacco, chiedere aiuto e protezione, parlare continuamente del problema e soprattutto controllare i sintomi, cercando di ridurne l’intensità.

Quando l’attacco di panico è vissuto come imprevedibile, il soggetto giunge gradualmente ad evitare ogni situazione e attività, fino a non uscire più di casa… la paura è tanta da non riuscire neanche a rimanervi solo: avrà bisogno di una presenza costante pronta ad intervenire in suo soccorso in caso di un nuovo attacco.

Esiste una variante di tentate soluzioni, più sofisticata, che possiamo definire “strategie precauzionali”: chiedere a qualcuno di accompagnarlo per il puro piacere della compagnia (nascondendo la vera motivazione), portare sempre con sé la boccetta di ansiolitico/sedativo/rilassante, raggiungere una destinazione con un mezzo di trasporto diverso da quello temuto o cambiare il tragitto, e via dicendo.

In questi casi non abbiamo un soggetto completamente invalidato dal disturbo, ma una persona che organizza tutta la sua esistenza intorno all’evitamento di quelle sensazioni spiacevoli.

Anche quando queste abitudini non risultano problematiche per l’individuo, possiamo immaginare la qualità di una vita passata ad evitare i propri limiti piuttosto che a superarli, accettando di rimanere al di sotto delle potenziali risorse.

   Come si risolve?

Come possiamo intuire, queste soluzioni sono solo in apparenza risolutive poiché finiscono per aggravare il quadro, disarmando il soggetto che non vede altra via d’uscita.

Spinto dall’illusione di prendere potere sul disturbo, il paziente si irrigidisce sulle tentate soluzioni sempre più invalidanti, fino a diventare il problema stesso su cui intervenire. Ad un certo punto, smettere di evitare o di chiedere aiuto, risulta troppo faticoso, anche quando la persona razionalmente sa che i suoi comportamenti non risolveranno il problema.

Vorrebbe uscirne, ma non riesce. In questi casi a poco servono le tecniche di rilassamento, musica zen e tisane antistress.

Per sbloccare un sistema così rigido è necessario un cambiamento operato dall’esterno, da chi conosce il problema e ha strumenti per risolverlo.

Senza dimenticare che il panicante non è colui che non possiede capacità,  ma colui il quale ha semplicemente dimenticato di averne.

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